Addio Presidente

A Bologna in occasione della mostra di Diego Forti sul mondiale di rugby

Ciao Giancarlo. Te lo dico così. A un amico più che a un presidente. O meglio il presidente. Sei stato l’uomo che ci ha fatto crescere nel mondo del rugby. Se oggi l’Italia è tra le grandi è solo perché la tua idea ha illuminato il percorso azzurro più di altri. Ci siamo affrontati, rispettati, confrontati ma sempre sulle idee, sui contenuti. La tua vita è stata il rugby in tutte le sue forme: giocatore, dirigente e riferimento imprescindibile di un’amore che per me dura da oltre 40 anni. Oggi che te ne sei andato a giocare un altro Sei Nazioni il rugby italiano è più povero. Mancherà il tuo punto di vista sul quale magari non sarò d’accordo ma con il quale dovrò comunque fare i conti. Figura controversa, dirà qualcuno. Ma per me resti un padre, un amico, una pietra angolare di un gioco che abbiamo tutti amato, tu per primo. So che mi volevi bene, e questo non lo dimentico. Ma scusami oggi il dolore è tanto. Non sarà facile lenirlo. E non è vero che i grandi giocatori al massimo passano la palla. Oggi il cronometro è fermo. Il TMO per una volta non guarda una meta. Guarda una vita. E che vita. Grazie presidente. Che la terra ti sia lieve.

L’insostenibile leggerezza della difesa

Il gruppo azzurro all’Olimpico contro l’Irlanda (Photo by Giampiero Sposito/Federugby via Getty Images)

Non è stato il miglior Sei Nazioni della nostra storia, come quello della passata stagione. Ci evitiamo il cucchiaio di legno (ii diciannovesimo) grazie alla vittoria alla seconda giornata contro il Galles e al punto di bonus (pesantissimo) ottenuto all’ultima giornata contro l’Irlanda. Rispetto allo scorso anno è però un passo indietro. 4 sconfitte nel bilancio del torneo pesano parecchio, inutile nascondere la polvere sotto il tappeto. Si poteva fare meglio anche prima del torneo. Dopo il tour estivo il tabellino dice: 7 mete al passivo contro l’Argentina, 2 contro la Georgia, 4 contro gli All Blacks. E poi 5 contro la Scozia, 2 per mano del Galles, 11 dalla Francia, 7 dall’Inghilterra e 4 dall’Irlanda. In totale fanno 42 mete subite, decisamente troppe con un attacco che quando ha brillato lo ha fatto su situazioni di giocorotto con i calcetti dietro le linee di Paolo Garbisi, di Monty Ioane e Ange Capuozzo che si sono scambiate le mete come altrettanti flash di una stagione che comunque non è tutta da buttare.

Allan e Monty Ioane dopo il vantaggio azzurro (Photo by Giampiero Sposito/Federugby via Getty Images)

D’accordo, in difesa c’è molto da rivedere sul punto di incontro e sulla copertura dello spazio. Anche per questo i cartellini gialli e rossi che ci hanno fatto male più degli infortuni contro l’Irlanda confermano questa tesi. E a ben guardare anche la vulnerabilità all’esterno dice più o meno la stessa cosa. La meta di Rory Darge dopo la corsa di Van der Merwe all’esterno e l’esplorazione piuttosto continua dei canali laterali (l’Inghilterra ha copiato la lezione), il bis di Sleightholme a Twickenham conferma che ci sono diversi dettagli da curare già chiari durante i test d’autunno. In generale sul piano difensivo la costruzione è chiara, lo è meno l’esecuzione. L’Italia sa essere aggressiva sul portatore del pallone: la spia sale con il tempo giusto ma troppo spesso non viene seguita e si trova da solo con buona pace dell’attacco avversario che ha gioco facile a ricostruire la fase successiva con palloni veloci. Le referenze? Chiedere a Brex, un talento come il suo non può essere isolato nel rugby moderno. Anche in attacco paghiamo un avanzamento minimo e del resto se cerchiamo il mismatch con i calci dietro le linee qualcosa vorrà pur dire. Ma per favore non spariamo sul pianista. Il fattore Q. ha cambiato. o meglio sta cercando di cambiare il nostro approccio al gioco. E non è una cosa facile. Quesada ha mostrato adattamento alla situazione anche in occasione dell’unica vittoria contro il Galles, in ottanta minuti in cui l’unica mossa vincente era non giocare. Quanto al torneo ha vinto la squadra più forte, quella capace di andare a vincere a Dublino a dispetto di una sconfitta totalmente autolesionista contro l’Inghilterra. Adesso tocca ai Lions di Colin Farrell. Aspettiamoci sorprese nella selezione che partirà per l’Australia. Per gli “ozzies” – o “aussies” che siano – è un bel trampolino di lancio in vista del mondiale. Gli azzurri giocheranno due test contro il Sudafrica, il 5 e il 12 luglio. Forse anche un’altra partita contro una Tier 2. Magari qualche meta subita in meno farebbe comodo per trovare una quadra che tra attacco e difesa ancora non è chiara.

Ciao Steve

Voglio ricordarlo come un gentiluomo, quando ci facemmo una bella chiacchierata nel centro di Cardiff prima del solito ingresso al Millennium Stadium. Steve Bale è stato uno dei must del giornalismo di rugby. Se volevi sapere qualcosa dei “Dragoni” dovevi passare per lui e il suo taccuino. Ti raccontava la storia ma soprattutto spiegava il contesto. E credeva nell’Italia, conosceva tutte le parole di Fratelli d’Italia. Ha seguito sette coppe del mondo, i tour dei Lions, la premiership e ovviamente il suo Galles. Ciao Steve, l’ultimo pezzo mandacelo appena arrivi.

Haka politica

Magari non sarà stata la “Kapa o’Pango” ma l’haka “Ka Mate” introdotta da TJ Perenara al suo passo d’addio agli All Blacks nella sfida di Torino contro l’Italia sarà destinata ad essere ricordata per il suo valore politico. Tutto sta dentro la protesta della comunità maori nel tentativo di rivedere una delle pietre miliari dei rapporti tra i maori e i pakeha (gli uomini bianchi). Perenara ne ha parlato negli spogliatoi con tutta la squadra. Sarebbe stato lui a fare il “kaea” e avrebbe lanciato un messaggio di unità.

L’Haka degli All Blacks allo Stadium di Torino

“Toitū te tiriti o Waitangi”

Tutto è dentro questa frase. TJ ha detto: “Toitū te mana o te whenua, toitū te mana motuhake, toitū te tiriti o Waitangi” che si traduce con “l’autorità sovrana della terra rimane, l’autorità sovrana del popolo rimane, l’autorità sovrana del Trattato di Waitangi rimane”

Waitangi, cosa è

Il trattato di Waitangi è stato firmato il 6 febbraio 1840 a Waitangi da William Hobson, rappresentante dell’Impero Britannico, e da circa quaranta capi delle tribù maori dell’Isola del Nord della Nuova Zelanda. È un documento di importanza centrale per la storia e la costituzione politica dello stato della Nuova Zelanda; esso ha definito le relazioni politiche tra il governo della Nuova Zelanda e la popolazione māori. Ora i principi di quel trattato sono stati messi in discussione ed è scattata la protesta che è arrivata fino a Torino.

“Guidare l’haka è sempre una cosa speciale in ogni momento – ha detto Perenara – Farlo stasera è stato speciale per mostrare l’unità di tutta la nostra gente. Io penso che tutti abbiamo visto la gente durante la marcia di protesta. Volevamo mostrare l’unità della nostra gente nella nostra terra. Per noi essere capaci di veder riconosciuta quell’unità come cittadini e non come comunità è una cosa importante e lo è anche per me”

Il capitano Scott Barrett negli spogliatoi ha parlato con TJ Perenara, “Avrebbe lanciato un messaggio – ha detto – in qualità di leader. Un messaggio di unità ed è quello che è accaduto”

Non sono mancate le reazioni. In una breve nota, il leader di ACT (Association of Consumers and Taxpayers) David Seymour, l’architetto del disegno di legge di revisione del trattato di Waitangi ha esortato Perenara a capire il significato dfella proposta.

Buoni solo per il matchday

Sfogliando i giornali, dopo il 50 a 18 preso a Udine contro l’Argentina mi aspettavo di leggere sui giornali la classica “ripresa”, un commento, qualcosa che facesse tornare le più importanti testate nazionali sul match dello Stadio Friuli. E invece no, mi sono sbagliato. Sui giornali c’era poco. Eppure da dire ci sarebbe stato tanto. L’approccio al match, il mea culpa, la stessa imbastitura dell’approccio alla prossima partita, quella contro la Georgia di Genova. Per carità anche i quotidiani hanno le loro regole, è la stampa bellezza e non puoi farci niente. L’Italia ha maturato il peggior passivo della storia dei faccia a faccia contro i Pumas, va bene così, nascondiamo la polvere sotto il tappeto, punto e a capo. Ma a questo punto una considerazione sulla comunicazione del rugby italiano va fatta. Ma come? Durante la campagna elettorale abbiamo letto il pelo e il contropelo di tutti i candidati, vizi privati e pubbliche virtù e ora con una squadra sconfitta così nettamente non si fa sui giornali uno straccio di analisi? Da troppi anni la Federugby vive un po’ troppo sui canali social. Possibile che sia più importante Facebook, Instagram e Tik-Tok che non quanto arriva dalle edicole? Possibile che al di là del web della partita contro l’Argentina si trovi poco già dopo due giorni dall’evento? A ben vedere si tratta di un segnale, quantomeno del peso mediatico che il rugby azzurro riesce a offrire. Evidentemenete un peso troppo leggero.